Del resto è ben noto che attorno agli anni ‘40-’50 c’è stato una specie di passaggio di testimone da Martini a Fausto Melotti. Nel laboratorio milanese di quest’ultimo, Martini- nel ‘47- ha cotto le sue ultime invenzioni, ed è quasi naturale che l’artista milanese abbia ereditato lo spirito martiniano messo in opera nei suoi spiritosi e anche spiritati “teatrini” (nei quali Melotti è già post-moderno…).
Fuga sa tutto di questi passaggi conosce ammira e non teme di misurarsi con queste figure eroiche (e antieroiche) del XX secolo. Perciò le sue rivisitazioni hanno innanzitutto accenti ironici, il minimo –si dirà- per operare non per esibire fin dall’inizio gli inevitabili debiti, iconografici. Ma proprio il confronto (questa operazione basilare nella formazione del giudizio, quindi della critica) tra i modelli precedenti e le opere di Fuga, permette di apprezzare lo scarto che il nostro artista ha impresso alle spaziature martiniane e alle “sezioni” melottiane.
Quelle che erano solo metaforicamente dei “teatrini” sono con Fuga finalmente divenuti tali: siamo davanti a dei teatrini di strada, animati da funamboli e manichini, nonché da acrobati, che esibiscono tutta la loro solitudine. Fuga è riuscito così a sintonizzarsi con i grandi temi della pittura primonovecentesca, dai saltimbanche picassiani ai manichini di De Chirico, senza ripetere cose già viste.
Queste “cassette” per personaggi stralunati e muti, per attori improbabili per poeti incompresi, hanno un loro posto nella scultura di fine secolo; perché confermano la fecondità dei grandi maestri del novecento e, d’altro lato, l’esistenza di un margine (mai esaurito) per artisti che intendano innovare la tradizione, anche recente.
Ascoltandola.