(note sulle opere recenti di Mariano Fuga)
Chi l’avrebbe detto che il materiale ceramico si sarebbe imposto oltre alla serie di perfomances messe a segno da tanti scultori nella prima metà del XX secolo e poi ancora negli anni ’60 e ’70 e, sia pure tra crisi e rigenerazioni, di nuovo negli anni successivi? Invece, perfino nei due settori estremi della tecnologia e della manualità, delle piastrelle per lo Shuttle e di tanto (anzi troppo e quasi sempre falso) artigianato, la ceramica continua a far sentire la propria voce.
Ma è proprio qui il punto: come si comporta un artista che conosce sia la ceramica sia i suoi limiti, che sa tutto della produzione storica (è il caso di Mariano Fuga che si è nutrito di ceramica fin dalla nascita) e che è nauseato dalla degenerazione dell’artigianato attuale?
La produzione recente dell’artista di Nove, da tanti anni attivo a Gargnano sul Garda, non lascia dubbi; Fuga (nomen omen!) ha inteso uscire dai limiti della ceramica, ma è altrettanto evidente che egli ha voluto mettere in atto la sua evasione portando con sé lo stigma del territorio dal quale sente la necessità di scappare.
Se così non fosse, Mariano Fuga avrebbe potuto agevolmente ritornare all’uso di quei materiali tecnologici da cui era partito alla fine degli anni ’60; ma non l’ha fatto e ciò significa che egli ha inteso formulare una risposta utopica alla “fine della ceramica”.
E così è stato. La sfida essendo quella di un materiale che vuole negare se stesso sia nella alternativa “fragile-durevole” sia nel rovesciamento dei vincoli scultorei, quindi di quella dialettica “peso-assenza di peso” che per tanto tempo ha continuato a caratterizzare le vicende dell’opera tridimensionale.
Le sculture recenti nascono dalle possibilità aperte in seno a quel dilemma e dalla necessità di uscirne; sono, perciò, figure volanti, figure in bilico, figure che aspirano a farsi aquilone, tuffatori più o meno convinti, atleti perplessi.
Mariano Fuga, insomma, si è costruito un suo teatro immaginario popolato di figure volanti, di saltatori e ballerini che aspirano a qualcosa che, nel momento in cui arriva, li stupisce. E’ come se l’aria che l’autore soffia nei fischietti (nei “cucchi”) prendesse le forme al volo; e la reazione di sorpresa che leggiamo sui volti dei personaggi non è solo segno di distacco ironico, per quanto soft. E’ anche segnale di partecipata sintonia, è proiezione in un destino. Niente di strano, allora, se queste ceramiche sembrano fatte di carta; anche i colori pastello confermano l’intenzione di assegnare leggerezza alle sculture (non dimentichiamoci che sono, invece, opere di notevoli dimensioni e di un certo …peso).
E le “colonne”? Queste concrezioni sembrano tornite dal tempo, paiono ridotte ai loro minimi termini da un invisibile movimento rotante che le consuma e le rende essenziali. Inevitabile quindi che gli ometti, che come moderni stiliti si ritrovano alla loro sommità, si guardino spaesati. Sembrano chiedersi: ma come abbiamo fatto a finire qua? Noi lo chiediamo, a nostra volta, a Mariano Fuga.
Nico Stringa