Tra figure, forme e sogni

La formazione di Mariano Fuga è nel segno della scultura: nelle prime mostre alla fine degli anni Sessanta esordisce in dialogo e in contrasto con la storicità del marmo e del bronzo, propria del suo maestro all’accademia di Venezia, Alberto Viani.

Dopo un principio che vede l’uso di materiali plastici e di recupero, dalla metà degli anni Settanta sceglie, fino ad oggi, di realizzare opere in ceramica.
Originario di Nove, che è uno dei principali poli italiani della lavorazione artigianale ed artistica in argilla, si confronta con la sua tradizione in modo critico, mantenendo sia un’attenzione sempre più forte alla propria capacità di crescita rispetto all’intervento tecnico sulla materia, sia uno sguardo aperto sui fatti artistici più diversi e contemporanei.
Tra gli anni Settanta, che culminano con una mostra a Gubbio curata da Enrico Crispolti, e la metà anni Ottanta il suo interesse è soprattutto rivolto verso l’arte povera; l’utilizzo della terracotta e del ferro per modellare cubi, sfere e lave è legato ad un’iconografia altrettanto riduttiva ed antidecorativa, carica di aspetti espressionisti che si dimostrano nella tendenza dell’oggetto a deformarsi e ad emettere materia, come potrebbe essere nel caso di un corpo umano.
Nella seconda metà degli anni Ottanta, quando nel frattempo si è allontanato dal Veneto e la sua attrazione nei confronti di altri aspetti dell’arte, in particolare della pittura, è aumentata, crea lastre e stele dove, su due dimensioni, può trovare espressione il colore.
Nei primi pannelli, per i quali verrà premiato al Concorso Internazionale della Ceramica di Faenza, prevalgono le cromie della terra, poi, come nella Personale al Museo della Ceramica di Nove, ossidi e smalti solcheranno spazi e cieli plumbei in opere che si chiamano Spazio ed Immagine onirica. In esse gli elementi dipinti si configurano come veloci sequenze che, attraversando le lastre, alludono per la rapidità del segno al linguaggio cinematografico o del fumetto. Le figure, tra informale e figurazione mimetica, rivelano l’interesse nei confronti del surrealismo di Matta, di Sutherland e di certe scritture automatiche di Hayter. Anche il lato gestuale del dipingere appare importante, e luminescenze dorate o argentee vengono gettate sull’argilla in una sorta di dripping, come nell’espressionismo astratto.
Le due costanti, del gesto e della scrittura surrealista, resteranno ed affioreranno sempre nell’opera di Fuga quando si dovrà, anche recentemente, attraversare col segno la superficie della ceramica, si tratti di lastre o di sculture.
La scelta del versante pittorico non sembra però essere la soluzione definitiva per l’autore che, nei primi anni Novanta, sente la necessità di far vivere nuovamente nello spazio i suoi lavori: è il periodo delle forme, in bilico tra scultura e pittura, di Lunare, sorta di rotonde terre favolose osservate dall’alto, geografie tracciate con grande perizia anche tecnica ed attenzione forse prevalente alle possibilità del colore.
In questi tondi si vedono già affiorare rocce minimali che annunciano il ritorno alla scultura. Nemmeno un anno dopo, dall’argilla modellata come si potrebbe fare con la pietra o il legno, nascono forme dove l’oggetto artistico e l’oggetto naturale tendono a coincidere e che ricordano meteoriti o pietre solcate da segni o rapide, indecifrabili scritture: sono Totem, Stele, Menhir, per le quali viene premiato al Concorso Internazionale di Gualdo Tadino.

Dal 1995, il latente interesse per la rappresentazione della figura umana sfocia in una produzione parallela di sculture fischianti che, rivisitando la tradizione antica del cuco in ceramica, danno vita ad immagini antropomorfe in relazione a sassi, mattoni o basi che le sorreggono.
La necessità di mettere in scena l’uomo si attua pienamente nella serie dei Teatrini della fine degli anni Novanta, da una lato produzione colta che dialoga con le opere di Martini e Melotti, dall’altro eredità del folclore e della tradizione ceramica popolare che esaspera le gestualità dei personaggi in senso clownesco o dissacrante, comunque arginato dal rigore dell’inscatolamento prospettico della scena.
Gli attori, apparizioni appena abbozzate di uomini bianchi e quasi senza volto, fortemente connotate dalle posture - che faranno da illustrazione ai testi poetici del regista Cesare Lievi, nel 1998 - conducono, all’apertura del XXI secolo, alla realizzazione di personaggi modellati a tutto tondo. di diverse dimensioni, che mantengono il medesimo aspetto stralunato. Al principio saltimbanchi e acrobati, tolti dalla cassetta-teatro, agiscono atleticamente dapprima appoggiandosi a forme appositamente create per sostenerle, poi muovendosi liberamente nello spazio. E’ una scelta coraggiosa, per un ceramista, affrontare il campo della scultura a tutto tondo, con la quale dà forma a figure progressivamente sempre più reali che, dall’espressionismo e dal surrealismo, approdano alle inquietanti compostezze della Nuova Figurazione e del realismo magico.
Negli ultimi anni alle gestualità gridate è subentrata, in certe figure di ragazze e adulti impegnati in faticosi movimenti ludici ed assurdi, la sottolineatura dell’ambiguità delle azioni, delle situazioni e della vita in genere; nelle immagini degli offerenti o dei cantori corpulenti, il sacro si è mescolato al grottesco come può avvenire nel teatro classico, lo stupore è stato corretto con l’ironia.
Le figure in volo, i tuffatori e i cavalieri, dimostrano questo raggiunto equilibrio che coincide, in modo naturale per uno scultore che lavora la materia, con la ricerca di relazione tra forma e spazio e con l’ accordo dei volumi e dei colori.


Pia Ferrari
tratto dal catalogo:
L'ARTE IN GIARDINO 2008
a cura della galleria GULLIVER
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