Mariano Fuga in volo sulla terra

Testo di Nico Stringa

Sono cinquant’anni, ormai, che Mariano Fuga si dedica alla scultura in ceramica e posso dire di averlo seguito da vicino e da lontano in tante sue “peripezie”, avventure previste e impreviste, frutto di un lavoro costante, per lo più svolto in solitaria.

Ciò non significa che mi sia più facile di altri formulare un giudizio critico sulle opere recenti e recentissime che Fuga espone in questa importante occasione a San Gimignano. Però nell’intrecciarsi dei ricordi delle sue prime opere con l’effetto che provocano queste ultime ceramiche, che Mariano ha definito, con un appiglio anche autobiografico “esercizi di risalita”; nella duplice azione di un passato che non passa e di un presente che s’infutura, molte sollecitazioni spuntano, molte parole si affacciano. Non posso dimenticare, ad esempio, che alla mostra organizzata da lui e dai suoi amici negli spazi dell’Accademia di Belle Arti di Venezia nel 1968, Fuga aveva proposto delle sculture – parallelepipedi sormontati da tubi in pvc – subito seguite dagli equivalenti in maiolica di grande formato ( i due Senza titolo, uno dei quali riproposto alla mostra veneziana Arte al bivio del 2008 dedicata agli anni ’60 e anche alla mostra recente al Museo delle Ceramiche di Faenza) molto interessanti e in dialogo diretto con le prime esperienze dell’Arte Povera.

Fuga aveva allora vent’anni e ha attirato l’attenzione, con i suoi lavori successivi, di Luciana Martini che in un saggio fondamentale per i ceramisti degli anni ’70 ha opportunamente tenuto conto del contributo del ceramista novese. Tutta questa prima fase della sua attività è stata costellata da mostre ormai storiche, come la VII Biennale di Gubbio del 1974 organizzata da Enrico Crispolti, e ha trovato il suo approdo più felice nel 1985, quando al Concorso Internazionale di Faenza gli è stato riconosciuto il premio acquisto e infine nel 1987 alla Mostra personale tenutasi al Museo della Ceramica di Nove. Negli anni novanta assistiamo gradualmente a un giro di boa; ai monocromi si sostituisce il colore, alla modellazione della creta si affianca la scultura vera e propria (lavorando e modificando quindi la materia già cotta) e arrivano nuove iconografie, nuove idee maturate nel dialogo con la scultura italiana degli anni ’30 e degli anni ’50. Nasce così il ciclo dei “teatrini”, ben consapevolmente in dialogo con Arturo Martini e Fausto Melotti e anche con la “vocazione teatrale” di Cesare Lievi, destinati per dimensioni e per poetica a essere collocati negli interni; nasce parallelamente il ciclo delle “ceramiche sonore” (su cui ha scritto Pia Ferrari) destinate invece a collocazioni in esterno. Accade così che le figure che animavano gli spazi dei “teatri” si liberassero nello spazio e nella luce, producendo itinerari del tutto inediti nella scultura italiana (in ceramica e non). Seguiranno le Colonne (dal 2008), i Mattoncini (dal 2012) e ora gli Esercizi di risalita:
tutte opere policrome in semirefrattario, realizzate in monocottura a 1200 gradi.

Sorprendono, in questi lavori più recenti, la continuità e l’innovazione rispetto alle ceramiche precedenti. Sorprende cioè il modo in cui Fuga è riuscito a immergersi per continuare il discorso dei “mattoncini” (così lui chiama gli ometti che saltano urlando da un punto all’altro dello spazio, a volte aggrappati al muro), ideando una nuova esplorazione da parte dei suoi protagonisti che si muovono adesso, rendendocene partecipi, dentro e fuori quelle forme elementari, fondamentali dell’esperienza sensoriale ed estetica, quali sono la sfera e la semisfera.

Mi sembra evidente che, a parte l’aspetto ludico che non manca più da vent’anni e oltre nel suo lavoro, c’è qualcos’altro che l’artista ci vuol dire. Ed è, mi sembra, che solo diventando piccoli, solo modificando la nostra dimensione, noi potremo fare esperienza di ciò che ci circonda e ricominciare da capo l’esplorazione delle forme. Se così è, l’ironia con la quale Fuga ha costruito la sua seconda vita di ceramista, dagli anni ’90 in qua, contribuisce a un invito imperioso: capire cioè che il valore delle sue sculture andrebbe indagato in modo più approfondito e profondo, da intendere anche come una personalissima storia della scultura che viene ripercorsa, a ritroso e in avanti, per interposta persona, da quei lillipuzziani abitatori di un altro mondo che da anni popolano le sue invenzioni. E’ un lungo racconto quello con cui Mariano Fuga ci intrattiene da tempo, una fiaba che forse ha come destinatari privilegiati quei bambini che non potranno non riconoscersi nei curiosi “esploratori” che animano gli spazi perfetti della sua ceramica. Acrobati innamorati dello spazio e dei colori; colori inediti, mi sembra, nella ceramica italiana contemporanea; e spazi altrettanto nuovi, pur essendo sotto gli occhi di tutti (forme concave e convesse, forme inevitabili, talmente sono elementari, eppure sembrano nuove!).

Sculture per bambini, dunque? Sì e no. Anzi: no e sì. No, perché come è noto, almeno agli italiani, il “fanciullino” (di Pascoli) abita negli adulti. Sì, perché, dotati di poca fantasia (contrariamente a quello che si crede) i bambini hanno bisogno dei “miti”; e Mariano ci ha pensato.